domenica 1 novembre 2015

sunto serata sui disturbi alimentari

La serata ha cercato di percorrere un viaggio, dal momento in cui l’adolescente si trova in un mare in burrasca, che non sa gestire, ad un primo approdo su un isola apparentemente felice, quella del disturbo alimentare, e poi come da questa isola si può ripartire… di seguito i passi principali del dialogo a due voci tra Lisa Tomaselli (psicologa) e Daniela Bonaldi (che porta la sua esperienza come malata di anoressia e bulimia).

INTRODUZIONE

Cosa sono i disturbi del comportamento alimentare? Sono disturbi che riguardano una fase della propria vita in cui diventa preponderante la paura di ingrassare e in cui vengono messi in atto una serie di comportamenti per controllare l’alimentazione e il peso del proprio corpo, con un’idea di magrezza che è sempre qualcosa “di più” rispetto al punto che si è raggiunto. I due disturbi principali sono:
  • -          l’anoressia, che è più conosciuta e di cui si parla di più, perché dà questo messaggio forte di dimagrimento, di deperimento;
  • -          la bulimia, che può sopraggiungere in seguito all’anoressia, o in fasi diverse della malattia, che vede delle crisi di abbuffata, dove c’è la sensazione di perdere il controllo e di doversi riempire, mangiando velocemente, mischiando dolce e salato senza pensare a ciò che realmente piace, affiancate dall’uso di strategie per placare il senso di colpa rispetto a quello che si è fatto, che possono essere esercizio fisico molto intenso, utilizzare lassativi o procurarsi il vomito. La bulimia è fatta per non essere vista, è nascosta. La persona non cala di peso e quindi è più difficile accorgersi che c’è qualcosa che non va. 

QUALCHE DATO

Il 70% delle ragazze dai 14 ai 19 anni è interessato a dieta e dimagrimento: è quindi abbastanza normale essere preoccupati per il proprio peso in adolescenza, anche perché questa fase della vita vede variazioni di peso che non sono dovute solo all’assunzione di cibo ma agli ormoni e allo sviluppo. Il tasso di rischio per i disturbi alimentari è di un ragazzo/a su 10, e questo non vuol dire di situazione conclamata ma di rischio elevato (14% per le ragazze, 4% per i ragazzi), con tentativi di dieta che possono essere pericolosi. L’età più delicata e di facile esordio dei disturbi è proprio l’adolescenza.
I SEGNALI D’ALLARME
Come genitori, cosa possiamo notare, a cosa dobbiamo stare attenti?
Sicuramente deve far sospettare un’attenzione eccessiva verso quello che si mangia, verso la spesa, verso le calorie e poi anche un senso di segreto (bugie sull’aver mangiato o meno). Una cosa che spesso ritarda i sospetti è che spesso chi sta entrando in questo problema difende i suoi comportamenti alimentari anomali, il non mangiare, con delle scuse fisiche (ho mal di denti, mal di pancia, lo stomaco gonfio…). Si rifiutano di mangiare dicendo che non stanno bene e questo distoglie l’attenzione dei genitori dal vero problema.
Oltre a questo un segnale è che il tema dell’alimentazione sia tanto presente, la persona malata tende a parlarne molto, a controllare tutto (i cibi, la spesa…): l’alimentazione inizia a diventare una parte centrale della vita della persona.
Altro segnale è la tensione che si respira al momento del pasto: invece di diventare un momento colloquiale e di incontro, si manifesta rabbia oppure la presenza di comportamenti strani, es. tagliare molte volte il cibo, dividerlo per colori…

L’ESORDIO DEI DISTURBI ALIMENTARI

I disturbi alimentari sono complessi, ma non si possono ridurre al voler dimagrire o al voler assomigliare a un modello ideale: questo può indurre a intraprendere una dieta. Chi soffre di disturbi alimentari ha dei sentimenti dolorosi che non sa come gestire. I fattori predisponenti sono la fragilità della persona, la maggior sensibilità (che possono renderla più vulnerabile rispetto alla realtà) e qualche evento scatenante (un evento, un accadimento di fronte al quale una persona pensa di non avere le armi, le forze per affrontare il problema). Il disturbo alimentare diventa una specie di salvagente, una specie di spiaggia, dove chi è naufragato arriva con la sensazione di essersi salvato. Il disturbo è un posto sicuro, perché soprattutto con l’anoressia, si provano una serie di sentimenti di gioia, di benessere che fanno stare meglio. Quando si smette di magiare a livello patologico ci si sente in piena forza, con molta energia, in grado di poter aver tutto sotto controllo. Si è consapevoli di riuscire a fare quello che le altre persone non fanno (riuscire a vivere senza cibo) e questo fa sentire più forti. C’è un allontanamento sempre più radicale dal resto del mondo. Il vedere il proprio corpo dimagrire dà forza e, all’inizio, il piacere più agli altri è un rinforzo potente. L’idea di mangiare significa rinunciare a questa forza e a questo controllo, che riguarda sia le emozioni sia il mondo che ci circonda. Per questo è così difficile dire “ok, ricomincio a mangiare”, e più il tempo passa più le cose diventano difficili.
Con la bulimia è diverso, si provano sentimenti molto dolorosi, le crisi sono incontrollabili e durante e dopo queste crisi ci sono forti sentimenti di vergogna, di sensi di colpa, di impotenza, anche di fronte alla forza di questi attacchi.
Un fattore comune sia per anoressia che per bulimia è il dolore che sta dietro a queste malattie.
I fattori scatenanti possono essere i più vari, e le storie delle persone malate lo dimostrano. Possono riguardare un problema fisico, ad esempio un ostacolo fisico che fa interrompere uno sport su cui si è investito molto, piuttosto che un trasferimento, la perdita di un proprio caro ecc. tutti eventi che vengono vissuti dalla persona come una “non scelta”.

DISTURBO ALIMENTARE E ADOLESCENZA

Il fatto che l’esordio accada con maggior frequenza in adolescenza è abbastanza facile da comprendere. L’adolescenza è caratterizzata da tre aspetti, che facilmente si intersecano con i disturbi alimentari:
  • 1.      il grande cambiamento sia fisico, sia a livello di pensiero (nasce il pensiero per ipotesi, nascono le grandi domande, di tematiche esistenziali) sia a livello emotivo, strettamente legato alla sessualità ed alla scoperta di un corpo maschile o femminile, diverso da prima; questo fa sentire in balia degli eventi, fa credere di non avere controllo. In questo momento l’anoressia dà maggior controllo, o l’apparenza di un maggior controllo, sui cambiamenti a cui è esposto il proprio corpo;
  • 2.      il processo di separazione e autonomia dai genitori, c’è un rifiuto di quello che viene proposto dalla famiglia mentre l’interesse viene rivolto al mondo dei pari; il cibo ha un forte impatto sociale, diventa centrale per la famiglia e molto spesso viene usato come segnale di forza nel contrasto con i propri genitori;
  • 3.      il giudizio e l’accettabilità: nel momento in cui sento di volermi esporre nel mondo sociale più ampio la preoccupazione riguarda la propria “giustezza” per gli altri; dagli anni ‘80 in poi l’aspetto corpo diventa centrale, quindi avere un certo tipo di corpo sembra un biglietto d’entrata per il successo.

LA MALATTIA E LE RELAZIONI CON GLI ALTRI

Quando una persona si ammala non sa a cosa sta andando incontro: l’iniziale benessere provato dal controllo sul cibo si scontra con la fatica di metter in atto alcuni comportamenti. Le cose cambiano pian piano: si devono creare bugie continue, in casa ed anche fuori per evitare un pasto, una pizza ma anche un caffè… è una continua fatica e tensione. Inoltre le persone accanto iniziano a preoccuparsi e a sottolineare l’importanza del cibo: le discussioni con i familiari creano scontri perché il desiderio di non mangiare/avere controllo è più forte. L’isolamento non è solo con la famiglia ma a poco a poco anche gli amici che, delusi dalle mille scuse, non chiamano più per uscire. L’anoressia porta ad un allontanamento dalle persone e dagli affetti, da una parte si vive e ci si chiude sempre di più in un mondo che rischia di diventare solo il tuo e dall’altra si vivono gli altri come nemici, perché vogliono portarci via dalla isola che ci fa stare bene.
Con la bulimia si hanno delle percezioni diverse anche dei rapporti: spesso chi sta vicino non si accorge della malattia né dalla sofferenza che sta provando la persona. Il dolore però è forte, perché giorno per giorno si ha la conferma di non avere forza, di non essere in grado, ecc., e proprio questi vissuti di inadeguatezza portano ad allontanarsi dagli altri.
Queste relazioni “rotte” non sono irreversibili, le parti possono ritrovarsi quando chi è malato diventa consapevole del problema, e dalla parte dei familiari molta pazienza e la consapevolezza che non si è di fronte a un capriccio ma a un disturbo vero. Per fare questo è essenziale il lavoro dei professionisti che possono accompagnare questo riavvicinamento. Il percorso di cura può essere parallelo, sia per la famiglia, sia per il malato.
La barriera tra chi sta male e chi vorrebbe far star meglio è paradossale ma è importantissima. Il punto di vista di malato e familiari è totalmente diverso: per il malato il disturbo alimentare è la soluzione ai propri problemi, per la famiglia un comportamento distruttivo ed insensato. Questo porta a dover fare i conti con una profonda solitudine. I genitori/familiari hanno due urgenze: vedere che la persona stia meglio e capire cosa ho sbagliato e cosa posso fare per aiutarla.
Il ruolo della famiglia è importante. Lo stile familiare disimpegnato e invischiato possono avere a che fare con i disturbi alimentari. Estremizzando, le famiglie disimpegnate sembrano essere composte da soggetti che si conoscono poco, che vanno per la loro strada, senza condividere un progetto famigliare con gli altri membri. Questo può essere un tipo di clima che non risponde al bisogno fondamentale dei ragazzi di essere importante per qualcuno. I giovani non si sentono visti, non si sentono di valore, di non sentirsi sicuri. Non si capisce chi sono io per l’altro. Le famiglie invischiate minano invece un altro bisogno fondamentale, quello di esplorazione, di conoscenza del mondo e dagli altri. Sono quelle famiglie in cui c’è molto pasticcio degli spazi di uno e dell’altro, in cui il progetto dei genitori diventa il progetto dei figli, in cui la felicità di uno dipende dalla felicità dell’altro, dove il resto del mondo è visto come negativo, al contrario della propria famiglia, creando timori e paure inutili.

LA MOTIVAZIONE A GUARIRE

Al contrario di altre malattie, chi ha un disturbo alimentare ha molta paura di guarire, perché ha paura di lasciare quel mondo che lo ha aiutato in momenti di grossa difficoltà. La paura di quello che non si conosce, dell’ignoto, immobilizza, e si rimane in uno stato –la malattia- che è visto come l’unico in grado di permettere di sopravvivere. C’è la paura che guarire modifichi completamente la propria persona, faccia diventare una persona in cui non ci si riconosce più: non si capisce che la guarigione porta con sé una maturazione, una maggior consapevolezza, in grado di far gestire il proprio dolore come fonte di crescita. Per questo è essenziale l’aiuto degli altri, aiuto medico/professionale ed aiuto emotivo/spontaneo, ricco di ascolto senza giudizio, stando vicino.
La consapevolezza che qualcosa non stia andando per il verso giusto nasce abbastanza spontaneamente nel malato, il fattore che fa virare verso un cambiamento positivo è l’abbandono dell’idea che devi farcela da solo, che devi dimostrare che sei più forte, che se chiedi una mano o dici che non ce la fai da solo vuol dire che sei più debole. Altro aspetto che facilita il non aver paura di chiedere aiuto è il non doversi vergognare, il sapere che dall’altra parte c’è chi ti vuole bene a prescindere: si creano spesso dei taboo, di temi in cui non si può parlare. E’ importante attivare l’ascolto, accettare la tristezza.

DALLA CONSAPEVOLEZZA ALLA CURA

La consapevolezza emerge quando i benefici della malattia vengono superati dagli aspetti negativi, non tanto sul corpo (cosa che è chiara agli altri), ma sulle relazioni, sulle rinunce che si devono fare (a lungo andare è impossibile fare sport, studiare…). Questo è più “facile” per la bulimia che è maggiormente caratterizzata da sofferenza, sconforto, tristezza, da colpevolizzazione, anche derivante dall’esterno. Intraprendere un percorso di cura non è un percorso lineare, ma è un percorso ricco di alti e bassi, con passi avanti e passi indietro. E’ un percorso difficile e profondo.
L’aiuto può derivare dallo psicologo (nella fase relazionale e emotiva) e del dietologo e dal nutrizionista (per il corpo ed il fisico), e deve esserci l’accompagnamento della famiglia che deve sostenere il processo di cambiamento. C’è la possibilità di fare trattamenti residenziali, che servono in alcuni casi. E’ importante l’aiuto esterno perché spesso l’urgenza dei famigliari di far star bene l’altro contrasta con il bisogno di chiarezza, di comprendere le cause, con il bisogno di essere accettato senza giudizio del malato. Il professionista esterno può aiutare proprio in questo, nel non giudicare, nel sostenere il cambiamento e la comprensione.

L’AIUTO ALLA FAMIGLIA

Quando si ammala qualcuno, tutta la famiglia si ammala in un certo senso perché tutti sono coinvolti. Vedere che un tuo caro sta male ti devasta dal punto di vista psicologico, perché si ha la paura che succeda qualcosa, soprattutto quando la malattia va avanti e il rischio per la vita è alto. Dall’altra è forte il senso di impotenza perché non si sa cosa fare, la persona malata si allontana, e più ci sono tentativi di avvicinamento più sembra rompersi di più la relazione. Servirebbe un percorso parallelo affianco a quello del malato, che deve essere un percorso di consapevolezza, di aiuto, per ricominciare insieme una nuova relazione, un nuovo percorso comune. Il percorso per i genitori dipende molto dal contesto: l’approccio solo sul singolo è sempre meno utilizzato, perché inefficace. Il tipo di lavoro con i genitori può essere di diverso tipo. La famiglia soffre e deve essere aiutata, nel contempo è una risorsa importante per il cambiamento del singolo, che può fare la differenza sulla guarigione.

I POSSIBILI VICOLI CIECHI DA EVITARE

Quali sono i vicoli ciechi in cui ci si può infilare, come genitori o cari di una persona malata? I modi di pensare poco funzionali?

  • -          “La volontà basta, la malattia è causa di mancanza di volontà”: già ci si sente persi e in colpa e questo non fa che aumentare i problemi. Bisogna invece capire che serve chiedere aiuto, non si è da soli e si deve permettere agli altri di aiutarci.
  • -          “Dove ho sbagliato e dov’è la mia colpa?”: il trovare la colpa, se questa c’è, non porta da nessuna parte. E’ invece necessario arrendersi alla complessità di questa malattia che ha mille cause e nessuna, e cercare di capire che gli sbagli sono umani, ma non esiste una realtà di causa-effetto;
  • -          “Posso salvarti io” oppure “arrangiati, vivi la tua vita”: E’ normale vivere uno o l’altro sentimento, magari anche entrambi in momenti diversi, ma nonostante gli estremi e i momenti difficili, è importante rimanere presenti e stare accanto alla persona malata.