La
serata ha cercato di percorrere un viaggio, dal momento in cui l’adolescente si
trova in un mare in burrasca, che non sa gestire, ad un primo approdo su un
isola apparentemente felice, quella del disturbo alimentare, e poi come da
questa isola si può ripartire… di seguito i passi principali del dialogo a due
voci tra Lisa Tomaselli (psicologa) e Daniela Bonaldi (che porta la sua esperienza
come malata di anoressia e bulimia).
INTRODUZIONE
Cosa
sono i disturbi del comportamento alimentare? Sono disturbi che riguardano una
fase della propria vita in cui diventa preponderante la paura di ingrassare e
in cui vengono messi in atto una serie di comportamenti per controllare
l’alimentazione e il peso del proprio corpo, con un’idea di magrezza che è
sempre qualcosa “di più” rispetto al punto che si è raggiunto. I due disturbi
principali sono:
- - l’anoressia, che è più conosciuta e di cui si parla di più, perché dà questo messaggio forte di dimagrimento, di deperimento;
- - la bulimia, che può sopraggiungere in seguito all’anoressia, o in fasi diverse della malattia, che vede delle crisi di abbuffata, dove c’è la sensazione di perdere il controllo e di doversi riempire, mangiando velocemente, mischiando dolce e salato senza pensare a ciò che realmente piace, affiancate dall’uso di strategie per placare il senso di colpa rispetto a quello che si è fatto, che possono essere esercizio fisico molto intenso, utilizzare lassativi o procurarsi il vomito. La bulimia è fatta per non essere vista, è nascosta. La persona non cala di peso e quindi è più difficile accorgersi che c’è qualcosa che non va.
QUALCHE DATO
Il
70% delle ragazze dai 14 ai 19 anni è interessato a dieta e dimagrimento: è
quindi abbastanza normale essere preoccupati per il proprio peso in
adolescenza, anche perché questa fase della vita vede variazioni di peso che
non sono dovute solo all’assunzione di cibo ma agli ormoni e allo sviluppo. Il
tasso di rischio per i disturbi alimentari è di un ragazzo/a su 10, e questo
non vuol dire di situazione conclamata ma di rischio elevato (14% per le
ragazze, 4% per i ragazzi), con tentativi di dieta che possono essere
pericolosi. L’età più delicata e di facile esordio dei disturbi è proprio
l’adolescenza.
I
SEGNALI D’ALLARME
Come
genitori, cosa possiamo notare, a cosa dobbiamo stare attenti?
Sicuramente
deve far sospettare un’attenzione
eccessiva verso quello che si mangia, verso la spesa, verso le calorie e
poi anche un senso di segreto (bugie sull’aver mangiato o meno). Una cosa che
spesso ritarda i sospetti è che spesso chi sta entrando in questo problema
difende i suoi comportamenti alimentari anomali, il non mangiare, con delle scuse
fisiche (ho mal di denti, mal di pancia, lo stomaco gonfio…). Si rifiutano di
mangiare dicendo che non stanno bene e questo distoglie l’attenzione dei
genitori dal vero problema.
Oltre
a questo un segnale è che il tema
dell’alimentazione sia tanto presente, la persona malata tende a parlarne
molto, a controllare tutto (i cibi, la spesa…): l’alimentazione inizia a
diventare una parte centrale della vita della persona.
Altro
segnale è la tensione che si respira al
momento del pasto: invece di diventare un momento colloquiale e di
incontro, si manifesta rabbia oppure la presenza di comportamenti strani, es. tagliare
molte volte il cibo, dividerlo per colori…
L’ESORDIO DEI DISTURBI ALIMENTARI
I
disturbi alimentari sono complessi, ma non si possono ridurre al voler
dimagrire o al voler assomigliare a un modello ideale: questo può indurre a
intraprendere una dieta. Chi soffre di disturbi alimentari ha dei sentimenti
dolorosi che non sa come gestire. I fattori predisponenti sono la fragilità
della persona, la maggior sensibilità (che possono renderla più vulnerabile
rispetto alla realtà) e qualche evento scatenante (un evento, un accadimento di
fronte al quale una persona pensa di non avere le armi, le forze per affrontare
il problema). Il disturbo alimentare diventa una specie di salvagente, una
specie di spiaggia, dove chi è naufragato arriva con la sensazione di essersi
salvato. Il disturbo è un posto sicuro, perché soprattutto con l’anoressia, si
provano una serie di sentimenti di gioia, di benessere che fanno stare meglio.
Quando si smette di magiare a livello patologico ci si sente in piena forza,
con molta energia, in grado di poter aver tutto sotto controllo. Si è
consapevoli di riuscire a fare quello che le altre persone non fanno (riuscire
a vivere senza cibo) e questo fa sentire più forti. C’è un allontanamento
sempre più radicale dal resto del mondo. Il vedere il proprio corpo dimagrire dà
forza e, all’inizio, il piacere più agli altri è un rinforzo potente. L’idea di
mangiare significa rinunciare a questa forza e a questo controllo, che riguarda
sia le emozioni sia il mondo che ci circonda. Per questo è così difficile dire
“ok, ricomincio a mangiare”, e più il tempo passa più le cose diventano
difficili.
Con
la bulimia è diverso, si provano sentimenti molto dolorosi, le crisi sono
incontrollabili e durante e dopo queste crisi ci sono forti sentimenti di
vergogna, di sensi di colpa, di impotenza, anche di fronte alla forza di questi
attacchi.
Un
fattore comune sia per anoressia che per bulimia è il dolore che sta dietro a
queste malattie.
I
fattori scatenanti possono essere i più vari, e le storie delle persone malate
lo dimostrano. Possono riguardare un problema fisico, ad esempio un ostacolo
fisico che fa interrompere uno sport su cui si è investito molto, piuttosto che
un trasferimento, la perdita di un proprio caro ecc. tutti eventi che vengono
vissuti dalla persona come una “non scelta”.
DISTURBO ALIMENTARE E ADOLESCENZA
Il
fatto che l’esordio accada con maggior frequenza in adolescenza è abbastanza
facile da comprendere. L’adolescenza è caratterizzata da tre aspetti, che
facilmente si intersecano con i disturbi alimentari:
- 1. il grande cambiamento sia fisico, sia a livello di pensiero (nasce il pensiero per ipotesi, nascono le grandi domande, di tematiche esistenziali) sia a livello emotivo, strettamente legato alla sessualità ed alla scoperta di un corpo maschile o femminile, diverso da prima; questo fa sentire in balia degli eventi, fa credere di non avere controllo. In questo momento l’anoressia dà maggior controllo, o l’apparenza di un maggior controllo, sui cambiamenti a cui è esposto il proprio corpo;
- 2. il processo di separazione e autonomia dai genitori, c’è un rifiuto di quello che viene proposto dalla famiglia mentre l’interesse viene rivolto al mondo dei pari; il cibo ha un forte impatto sociale, diventa centrale per la famiglia e molto spesso viene usato come segnale di forza nel contrasto con i propri genitori;
- 3. il giudizio e l’accettabilità: nel momento in cui sento di volermi esporre nel mondo sociale più ampio la preoccupazione riguarda la propria “giustezza” per gli altri; dagli anni ‘80 in poi l’aspetto corpo diventa centrale, quindi avere un certo tipo di corpo sembra un biglietto d’entrata per il successo.
LA MALATTIA E LE RELAZIONI CON GLI ALTRI
Quando
una persona si ammala non sa a cosa sta andando incontro: l’iniziale benessere
provato dal controllo sul cibo si scontra con la fatica di metter in atto
alcuni comportamenti. Le cose cambiano pian piano: si devono creare bugie
continue, in casa ed anche fuori per evitare un pasto, una pizza ma anche un
caffè… è una continua fatica e tensione. Inoltre le persone accanto iniziano a
preoccuparsi e a sottolineare l’importanza del cibo: le discussioni con i
familiari creano scontri perché il desiderio di non mangiare/avere controllo è
più forte. L’isolamento non è solo con la famiglia ma a poco a poco anche gli
amici che, delusi dalle mille scuse, non chiamano più per uscire. L’anoressia
porta ad un allontanamento dalle persone e dagli affetti, da una parte si vive
e ci si chiude sempre di più in un mondo che rischia di diventare solo il tuo e
dall’altra si vivono gli altri come nemici, perché vogliono portarci via dalla
isola che ci fa stare bene.
Con
la bulimia si hanno delle percezioni diverse anche dei rapporti: spesso chi sta
vicino non si accorge della malattia né dalla sofferenza che sta provando la
persona. Il dolore però è forte, perché giorno per giorno si ha la conferma di
non avere forza, di non essere in grado, ecc., e proprio questi vissuti di
inadeguatezza portano ad allontanarsi dagli altri.
Queste
relazioni “rotte” non sono irreversibili, le parti possono ritrovarsi quando
chi è malato diventa consapevole del problema, e dalla parte dei familiari
molta pazienza e la consapevolezza che non si è di fronte a un capriccio ma a
un disturbo vero. Per fare questo è essenziale il lavoro dei professionisti che
possono accompagnare questo riavvicinamento. Il percorso di cura può essere
parallelo, sia per la famiglia, sia per il malato.
La
barriera tra chi sta male e chi vorrebbe far star meglio è paradossale ma è
importantissima. Il punto di vista di malato e familiari è totalmente diverso:
per il malato il disturbo alimentare è la soluzione ai propri problemi, per la
famiglia un comportamento distruttivo ed insensato. Questo porta a dover fare i
conti con una profonda solitudine. I genitori/familiari hanno due urgenze:
vedere che la persona stia meglio e capire cosa ho sbagliato e cosa posso fare
per aiutarla.
Il
ruolo della famiglia è importante. Lo stile familiare disimpegnato e
invischiato possono avere a che fare con i disturbi alimentari. Estremizzando,
le famiglie disimpegnate sembrano essere composte da soggetti che si conoscono
poco, che vanno per la loro strada, senza condividere un progetto famigliare
con gli altri membri. Questo può essere un tipo di clima che non risponde al
bisogno fondamentale dei ragazzi di essere importante per qualcuno. I giovani
non si sentono visti, non si sentono di valore, di non sentirsi sicuri. Non si
capisce chi sono io per l’altro. Le famiglie invischiate minano invece un altro
bisogno fondamentale, quello di esplorazione, di conoscenza del mondo e dagli
altri. Sono quelle famiglie in cui c’è molto pasticcio degli spazi di uno e
dell’altro, in cui il progetto dei genitori diventa il progetto dei figli, in
cui la felicità di uno dipende dalla felicità dell’altro, dove il resto del
mondo è visto come negativo, al contrario della propria famiglia, creando
timori e paure inutili.
LA MOTIVAZIONE A GUARIRE
Al
contrario di altre malattie, chi ha un disturbo alimentare ha molta paura di
guarire, perché ha paura di lasciare quel mondo che lo ha aiutato in momenti di
grossa difficoltà. La paura di quello che non si conosce, dell’ignoto,
immobilizza, e si rimane in uno stato –la malattia- che è visto come l’unico in
grado di permettere di sopravvivere. C’è la paura che guarire modifichi
completamente la propria persona, faccia diventare una persona in cui non ci si
riconosce più: non si capisce che la guarigione porta con sé una maturazione,
una maggior consapevolezza, in grado di far gestire il proprio dolore come
fonte di crescita. Per questo è essenziale l’aiuto degli altri, aiuto medico/professionale
ed aiuto emotivo/spontaneo, ricco di ascolto senza giudizio, stando vicino.
La
consapevolezza che qualcosa non stia andando per il verso giusto nasce
abbastanza spontaneamente nel malato, il fattore che fa virare verso un cambiamento
positivo è l’abbandono dell’idea che devi farcela da solo, che devi dimostrare
che sei più forte, che se chiedi una mano o dici che non ce la fai da solo vuol
dire che sei più debole. Altro aspetto che facilita il non aver paura di
chiedere aiuto è il non doversi vergognare, il sapere che dall’altra parte c’è
chi ti vuole bene a prescindere: si creano spesso dei taboo, di temi in cui non
si può parlare. E’ importante attivare l’ascolto, accettare la tristezza.
DALLA CONSAPEVOLEZZA ALLA CURA
La consapevolezza
emerge quando i benefici della malattia vengono superati dagli aspetti
negativi, non tanto sul corpo (cosa che è chiara agli altri), ma sulle
relazioni, sulle rinunce che si devono fare (a lungo andare è impossibile fare
sport, studiare…). Questo è più “facile” per la bulimia che è maggiormente
caratterizzata da sofferenza, sconforto, tristezza, da colpevolizzazione, anche
derivante dall’esterno. Intraprendere un percorso di cura non è un percorso
lineare, ma è un percorso ricco di alti e bassi, con passi avanti e passi
indietro. E’ un percorso difficile e profondo.
L’aiuto
può derivare dallo psicologo (nella fase relazionale e emotiva) e del dietologo
e dal nutrizionista (per il corpo ed il fisico), e deve esserci
l’accompagnamento della famiglia che deve sostenere il processo di cambiamento.
C’è la possibilità di fare trattamenti residenziali, che servono in alcuni
casi. E’ importante l’aiuto esterno perché spesso l’urgenza dei famigliari di
far star bene l’altro contrasta con il bisogno di chiarezza, di comprendere le
cause, con il bisogno di essere accettato senza giudizio del malato. Il
professionista esterno può aiutare proprio in questo, nel non giudicare, nel
sostenere il cambiamento e la comprensione.
L’AIUTO ALLA FAMIGLIA
Quando
si ammala qualcuno, tutta la famiglia si ammala in un certo senso perché tutti
sono coinvolti. Vedere che un tuo caro sta male ti devasta dal punto di vista
psicologico, perché si ha la paura che succeda qualcosa, soprattutto quando la
malattia va avanti e il rischio per la vita è alto. Dall’altra è forte il senso
di impotenza perché non si sa cosa fare, la persona malata si allontana, e più
ci sono tentativi di avvicinamento più sembra rompersi di più la relazione.
Servirebbe un percorso parallelo affianco a quello del malato, che deve essere
un percorso di consapevolezza, di aiuto, per ricominciare insieme una nuova
relazione, un nuovo percorso comune. Il percorso per i genitori dipende molto
dal contesto: l’approccio solo sul singolo è sempre meno utilizzato, perché
inefficace. Il tipo di lavoro con i genitori può essere di diverso tipo. La
famiglia soffre e deve essere aiutata, nel contempo è una risorsa importante
per il cambiamento del singolo, che può fare la differenza sulla guarigione.
I POSSIBILI VICOLI CIECHI DA EVITARE
Quali
sono i vicoli ciechi in cui ci si può infilare, come genitori o cari di una
persona malata? I modi di pensare poco funzionali?
- - “La volontà basta, la malattia è causa di mancanza di volontà”: già ci si sente persi e in colpa e questo non fa che aumentare i problemi. Bisogna invece capire che serve chiedere aiuto, non si è da soli e si deve permettere agli altri di aiutarci.
- - “Dove ho sbagliato e dov’è la mia colpa?”: il trovare la colpa, se questa c’è, non porta da nessuna parte. E’ invece necessario arrendersi alla complessità di questa malattia che ha mille cause e nessuna, e cercare di capire che gli sbagli sono umani, ma non esiste una realtà di causa-effetto;
- - “Posso salvarti io” oppure “arrangiati, vivi la tua vita”: E’ normale vivere uno o l’altro sentimento, magari anche entrambi in momenti diversi, ma nonostante gli estremi e i momenti difficili, è importante rimanere presenti e stare accanto alla persona malata.